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Intervista "In Italia danni enormi con un sisma molto più piccolo"

In Italia danni enormi con un sisma più piccolo

Intervista di Cristiana Pulcinelli, de L'Unità, ad Aldo Zollo - 12 Marzo 2011

“Cosa sarebbe successo con un terremoto simile in Italia?”. La domanda se la poneva ieri un ragazzo italiano che studia a Tokyo raggiunto da un giornalista subito dopo le scosse più violente. E’ poi rimbalzata tra i commenti dei lettori apparsi sui siti dei giornali italiani, preoccupati ella capacità di risposta del nostro paese.
Abbiamo deciso così di girarla a Aldo Zollo, docente di sismologia all’università Federico II di Napoli. I due paesi non sono in una situazione comparabile. Il Giappone è sottoposto a terremoti frequenti, ha quindi sviluppato una cultura della protezione del territorio molto avanzata. Gli investimenti in ricerca e tecnologia su questi temi in Giappone sono molto superiori rispetto a qualsiasi altro paese del mondo e non riguardano solo le procedure per la costruzione di edifici antisismici. Un esempio è l’early warning. Subito dopo che i sismografi registrano le prime onde, che sono quelle con energia e ampiezza più basse, parte un sistema di allerta. Dall’analisi di quelle prime onde si può infatti fare un calcolo dei danni attesi e ci sono alcune decine di secondi per intervenire prima che arrivino le seconde onde, quelle distruttive. C’è tempo quindi per un allerta che viene lanciato da radio e tv a tutta la popolazione e per la messa in sicurezza automatica di impianti e persone a rischio, o per prendere misure come far rallentare la corsa dei treni. Il Giappone sta sperimentando questo sistema dal 2007”.
E’ questo che permette di avere danni contenuti rispetto all’entità del fenomeno?
Prima di tutto c’è il fatto che l’evento è accaduto a una distanza notevole dai centri abitati: l’epicentro è a 350 chilometri circa da Tokyo. E poi, naturalmente, c’è la protezione del territorio di cui parlavamo. I danni maggiori, fino a questo momento, sembra siano stati provocati dallo tsunami nonostante ci troviamo di fronte a un terremoto violentissimo, di magnitudo 8.9: per fare un confronto, il terremoto dell’Aquila era di magnitudo 6. Questo vuol dire che l’energia liberata è di gran lunga maggiore. Una differenza di un punto di magnitudo equivale a un aumento di 30 volte dell’energia rilasciata. Quindi si può dire che l’energia liberata in questo terremoto è circa 30.000 volte di più di quella del terremoto dell’Aquila.
Perché in Giappone?
Il terremoto è avvenuto in una zona di subduzione: in quel punto la zolla del Pacifico si immerge al di sotto della zolla eurasiatica. Il movimento relativo di queste due placche avviene a una velocità di 8 centimetri all’anno. Per dare una misura di riferimento, la zolla africana si muove rispetto a quella europea a una velocità di 1 centimetro all’anno. Le isole giapponesi sono proprio sulla verticale di questa zona di subduzione. E, infatti, negli ultimi 40 anni hanno subito 9 terremoti di magnitudo superiore a 7. Questo è il più grave di tutti. Basti pensare che un terremoto di questo genere produce una frattura che ha un’estensione di circa 400 chilometri e una profondità sicuramente superiore a 20 chilometri.
E in Italia?
In Italia, come in tutta l’Europa, terremoti di questa intensità non si sono mai registrati e presumibilmente non si avranno neppure in futuro. Ciò non toglie che anche un terremoto più piccolo possa fare enormi danni in zone molto abitate come le nostre, specialmente se, come è avvenuto all’Aquila, la frattura si è sviluppata quasi sotto il centro abitato.

Come organizzare la prevenzione?
Le azioni di prevenzione devono seguire tre linee. In primo luogo il monitoraggio. Su questo fronte non siamo molto distanti dal Giappone: la densità delle stazioni sismiche sul nostro territorio è elevata e la tecnologia dell’osservazione di buon livello. Stiamo anche sperimentando sistemi di early warning come quello giapponese in una zona dell’Appennino meridionale. In secondo luogo l’adeguamento antisismico e la mappatura delle zone a rischio. Qui però usciamo dall’ambito scientifico e entriamo in quello legislativo. Per ottenere risultati, occorre una pianificazione a lungo termine che possa contare su investimenti importanti. Il Giappone ha avviato questa politica circa 50 anni fa. Purtroppo da noi, poiché gli effetti degli nterventi non sono immediati, non si riesce mai a dare loro una priorità. Infine c’è l’educazione: bisogna pensare a un’attività di formazione a vari livelli, dalla scuola agli amministratori locali. Io credo che queste tre linee di intervento in una decina d’anni potrebbero fornire una buona base per la protezione contro eventi di una certa portata.